Parlano i gesti di papa Francesco, parla il suo volto. Ed è tutto tanto chiaro, comprensibile a chi vuole e sa leggere il suo linguaggio. A Sarajevo c’è bisogno di usare anche queste parole perché le altre, quelle che altrove hanno un unico gusto, possono avere tanti sapori diversi. Dipende da chi le dice, da chi le ascolta, da dove sono dette, a chi sono rivolte. Francesco sa di camminare in un suolo che non ha eguali in Europa, ha l’umiltà di cogliere lo sguardo e le esigenze di chi ha davanti. Sa ascoltare, accogliere per davvero, sa dire ciò che è giusto, sa denunciare senza oltraggiare e ferire, sa aprire orizzonti di futuro possibile. Per tutti.
Sgombrato il campo dalle potenziali trappole di un viaggio – il 7 giugno – carico di rischi (“Sono venuto come pellegrino di pace”), ha detto da che parte sta fin da subito. Appena sceso dalla scaletta dell’aereo, nell’assolata pista di quello stesso aeroporto che durante l’assedio della città era contemporaneamente campo di battaglia e unica via di fuga, sbrigate in fretta le formalità che gli toccano quale capo di stato, si fionda su un gruppo di bambini a cui era affidato il benvenuto, composti e curiosi nei loro splendidi abiti tradizionali del loro gruppo nazionale. Uno per uno: ogni sguardo e ogni volto, per il Papa, sono unici, degni di attenzione e tenerezza. Uno alla volta, il tempo che ci vuole per far sentire questi piccoli i veri protagonisti di un paese che ha tutte le carte in regola per tornare a vivere sul serio, se soltanto glielo permettessero. Uno alla volta, perché ognuno di loro è importante. E mentre il protocollo smania, lo attendono infatti “ben altri” incontri più importanti, si ferma, ascolta, saluta, sorride. E pian piano si scioglie, si sente più a casa, la severità del suo sguardo nello scendere la scaletta si stempera nella dolcezza di un sorriso che si confonde con quelli luminosi, freschi dei piccoli bosniaci. Li ha talmente ancora negli occhi e nel cuore questi bambini che l’unica digressione al discorso ufficiale nel palazzo della Presidenza della Bosnia ed Erzegovina è riservata a loro: “La scommessa della speranza – ha detto ai tre presidenti nazionali – l’ho vista negli occhi dei vostri bambini. Dovete, dobbiamo avere il coraggio di farla crescere”. Certo, è fondamentale che la Bosnia Erzegovina abbia pieno diritto di cittadinanza in Europa, di cui è parte integrante, non è più rinviabile uno stato che riconosce sul serio ad ogni suo cittadino parità di diritti e di doveri. Ma se ci dimentichiamo di quei bambini, sarà tutto più complicato, difficile. Ci sarà sempre un motivo per recriminare, dividere, rinunciare a costruire partendo dal tanto che unisce.
Beati quelli che hanno il coraggio di fare la pace. Lo dice in tutti i modi, celebrando Messa nello stadio Kosevo e non fa sconti a nessuno. Spiazza la concretezza di questo verbo, ‘fare’. Non c’è storia: o si fa la pace, o la si nega. Si costruisce giorno dopo giorno, ha bisogno di impegno, cura, fatica e maestria. Si fa serio mentre contrappone l’industria delle armi all’artigianato della pace. Quando si distrugge, si lavora come ad una catena di montaggio: spariscono i dettagli, tutto è omologato verso il basso, è la quantità che fa la differenza perché è quella che le parti in conflitto mettono sul piatto delle loro strategie. La pace assomiglia invece ai meravigliosi intarsi della sedia sulla quale si è seduto durante la celebrazione, costruita, appunto, da abili artigiani mussulmani bosniaci. Chissà quanta passione, quante ore di lavoro, quanta tecnica ed esperienza, quanta fantasia e gusto per arrivare ad un pezzo unico così prezioso.
La beatitudine in più, “benedetti voi che avete così vicine queste testimonianze”. È la logica di Dio, della sua croce, vissuta in carne ed ossa, oggi. Ed anche oggi, in Bosnia Erzegovina, queste vite donate parlano. È il segno distintivo di questa comunità cristiana, è l’enorme, drammatica eredità che la chiesa di questo piccolo paese dona a quella universale, il suo terribile e meraviglioso compito storico che sembra non esaurirsi mai. Francesco, parlando a braccio (“dal cuore”, traduce l’interprete in lingua croata) la consegna di nuovo ai consacrati, stretti come sardine nella piccola cattedrale cattolica, ai preti, ai vescovi. Parole straordinarie che sanno far incontrare memoria e perdono, martirio e vita. ‘Piccoli martiri’ definisce il prete, il frate e la suora che hanno testimoniato il loro calvario durante la guerra. Martiri, ma vivi. “Questa è la memoria del vostro popolo. E il popolo che dimentica la sua memoria non ha futuro. Questa è la memoria dei vostri padri e madri della fede. Non avete diritto a dimenticare la vostra storia, non per vendicarvi ma per fare pace. Non per considerarla come cosa astratta, ma per amare come loro hanno amato. Nel vostro sangue, nella vostra vocazione c’è il sangue di questi tre martiri, c’è la vocazione di tanti religiosi, preti, seminaristi. L’apostolo Paolo, nella lettera agli Ebrei, si raccomanda di non dimenticare gli antenati, quelli che hanno trasmesso la fede. Questi vostri fratelli vi hanno trasmesso come si vive la fede. Lo stesso Paolo dice ‘non dimenticatevi di Gesù Cristo’, il primo martire. Loro hanno camminato sulle tracce di Gesù. Riprendete la memoria per fare pace, vivendo il perdono. Un uomo e una donna che si consacrano al Signore e non sanno perdonare, non servono. Perdonare per cose banali, sappiamo farlo. Perdonare chi ti picchia, ti tortura, ti calpesta, ti minaccia di morte è difficile, tanto. Loro lo hanno fatto e predicano, con la loro vita, di continuare a farlo. Sempre. Quante volte lo spirito del mondo ci fa dimenticare le sofferenze di questi nostri antenati. Non dimenticate. Vivete una vita degna della Croce di Gesù Cristo. Fate il bene di tutti, tutti hanno in loro stessi il Bene, tutti siamo figli di Dio. Benedetti voi che avete così vicini queste testimonianze, non dimenticatele e che la vostra vita cresca con questo ricordo. Avete vissuto una storia di crudeltà che anche oggi prosegue in tante parti del mondo, in questa guerra mondiale a pezzetti: fate sempre il contrario della crudeltà, abbiate atteggiamenti di tenerezza, fratellanza, perdono; portate la croce di Gesù Cristo. Piccoli martiri, piccoli testimoni della croce di Gesù”.
Non è lungo il percorso che porta Francesco ad incontrare i leader delle fedi che abitano qui, ebrei, ortodossi, musulmani. Ma sa bene che in realtà è una strada lunga quanto la vita degli uomini e delle donne sulla Terra, è quella le cui dinamiche possono decidere, già da qui, l’inferno di convivenze impossibili o l’armonia di credo professati e vissuti con coerenza. Anche nel tempo della libertà da Dio, del secolarismo crescente, anche quando le Parole eterne incontrano a fatica le parole umane. “Abbiamo tutti lo stesso Dio, tutti siamo figli di Dio”, ripete con forza. Altro che rivendicazioni, dottrine, dogmi. Lo sguardo parte dalla prospettiva di Dio, il punto visuale è il Suo. Basterebbe, si fa per dire, vedere gli uomini e le donne come li guarda Lui. Attingendo a piene mani, ognuno, dalla bellezza delle proprie appartenenze, dalla ricchezza di spiritualità che possono ancora fare più bello il mondo. Lo sa bene il popolo bosniaco, vissuto nel bene e nel male, in questa convivenza secolare, a volte subìta e difficilissima, altre volte realizzata pacificamente. Comunque, un dato storico originale che poteva e che può anche oggi dire molto ad un pianeta scosso nuovamente da violenze e stravolgimenti che sembravano storia passata. E che chiamano troppo spesso in causa Dio.
Fiori di una nuova primavera. Ricomincia da loro, dai giovani incontrati nel centro di pastorale giovanile dedicato al san Giovanni Paolo II. “La prima generazione del dopoguerra. Voi siete fiori di una primavera che vuole andare avanti e non tornare alla distruzione. Trovo in voi questa voglia e questo entusiasmo”.
Si intravede il volto di Francesco dal finestrino dell’aereo che lo riporta a Roma, è concentrato e sereno al contempo. È una periferia diversa, inedita quella che ha conosciuto più da vicino in questa densa giornata. Sarajevo, l’universale. Il papa ha saputo ascoltarla, le ha donato speranza, ci crede davvero che può farcela. Ora tocca a chi la vive, a chi la guida. Ora tocca anche a questo vecchio continente, sempre più ripiegato su se stesso, decidere sul serio se anche la Bosnia Erzegovina ha diritto ad un’altra possibilità di pace e di giustizia.
di Laura Mandolini - pubblicato su http://azionecattolica.it/francesco-i-piccoli-e-la-pace