Aldo Moro, autentico innovatore

Il 9 maggio del 1978 il presidente della Dc veniva assassinato dalle Br

Sono trascorsi  40 anni da alcuni tra gli eventi più drammatici che hanno segnato nel profondo la storia della nostra Repubblica: il sequestro e il successivo omicidio di Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, da parte delle Brigate rosse, dopo 55 giorni di prigionia. Quegli episodi, a distanza di tempo, si sono rivelati il vero spartiacque della nostra storia: non riusciremmo a capire l’evolversi della situazione politica italiana senza ricordare e meditare quei momenti così difficili e complicati.
Colpisce – ed è un piccolo particolare che mi ha sempre fatto pensare – il luogo dove Aldo Moro fu rapito e la sua scorta trucidata; da allora e fino ad oggi, via Mario Fani diventa «il luogo del nostro destino», lo spazio fisico nel quale si consuma un dramma umano e istituzionale senza precedenti.
Un crudele agguato e un atroce “scherzo del destino” quelli che colpiscono l’inerme Moro, rapito proprio nella strada che porta il nome del fondatore dell’Azione cattolica, associazione di cui il presidente democristiano aveva fatto parte in anni giovanili, prima con l’impegno nella Federazione degli universitari cattolici (Fuci) e poi all’interno del Movimento laureati, realtà di intellettuali che aveva contribuito in maniera decisiva all’elaborazione e poi alla stesura della Carta costituzionale.
Il 1978 è stato l’anno in cui il sistema politico del nostro Paese – già bloccato per via della Guerra Fredda e per la divisione del mondo in due blocchi contrapposti – si è inceppato del tutto.
Moro è stato, dopo De Gasperi, la figura più importante della Dc e della politica italiana, lo stratega e il tessitore che più di ogni altro ha cercato di far evolvere in maniera positiva e il più possibile unito il Paese. Gli anni di governo Moro (1963 – 1968 soprattutto) si ricordano per essere stati retti da una coalizione di centro-sinistra. Il 1968 segna la fine di una fase politica della Repubblica e l’apertura di una nuova. Lo stesso Moro definirà questa “la terza fase”, riferendo la prima al centrismo e al monopartitismo di governo, la seconda proprio al periodo di governo di centro-sinistra: obiettivo della politica di Moro fu quello di rendere meno ingessato e impermeabile ai mutamenti il sistema politico italiano e giungere finalmente ad una “democrazia compiuta” dell’alternanza fra forze politiche diverse.
Moro era convinto che per risolvere la crisi sistemica italiana, per evitare cioè che il Paese si dividesse e la violenza prevalesse, il confronto con il Partito comunista fosse la strada più giusta da percorrere. Dal confronto con i comunisti, Moro auspicava che la differenza fra i due maggiori partiti si riducesse al programma politico (e non più alla sola ideologia), pur sempre all’interno di uno stesso modello di democrazia. Egli, infatti, aveva ben compreso come «una democrazia complessa non si governa con la forza del comando, ma con l’abilità di non strapparne la trama» e il suo sforzo fu sempre teso a non esasperare gli animi, a trovare soluzioni percorribili ma non scontate per allargare la base della democrazia e far progredire l’Italia, «il Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili», secondo una delle sue definizioni più acute. Una lezione che nell’attuale impasse istituzionale andrebbe ripresa, meditata e studiata a fondo.
Nel rileggere i discorsi e poi le lettere dalla prigionia fa impressione constatare come Moro, docente universitario attento al mondo giovanile e ai cambiamenti della realtà, avesse ben presente alcuni dei problemi e delle questioni che ci troviamo oggi ad affrontare: dalle incognite geopolitiche dell’Europa al primato dell’economia, dalla crisi della democrazia e dei partiti di massa alla difficoltà a realizzare una grande riforma istituzionale, fino alla crisi del sistema mediatico.
Bisogna prendere atto, a distanza di tempo, del fatto che Moro – proprio perché innovatore autentico – fosse detestato da entrambi i fronti; per l’estrema sinistra incarnava un trentennio di malgoverno democristiano, per la destra era un “nemico” fin dal 1960, anno in cui il governo Tambroni sostenuto dai neo-fascisti era stato fortunatamente bloccato proprio da Moro.
Come ha voluto sottolineare Marco Damilano nel suo ultimo volume (“Un atomo di verità”) il leader Dc temeva la presenza di una destra profonda, conservatrice e reazionaria, incapace di guardare al futuro e al bene della comunità, ripiegata sulla paura e la chiusura agli altri, annidata in maniera ancestrale all’interno dell’elettorato moderato. Una destra che, eliminato Moro, non ha più avuto ostacoli per dilagare e imporsi nella sua versione più grezza, sia in Italia sia in Europa.
Con l’uccisione di Moro non solo è finita la Dc, ma anche la Prima Repubblica, trascinatasi stancamente fino all’epilogo di Mani pulite del 1992-1993. La sua morte ha segnato la fine della politica come leva privilegiata del cambiamento, della mediazione tout court e ha reso impossibile un’autoriforma dei partiti a lungo attesa, della classe dirigente e del personale politico.
Moro, da cattolico fervente, non ha rifuggito il proprio tempo, ma si è confrontato seriamente con le questioni e le problematiche sociali, avendo sempre presente il rispetto dei valori fondamentali della dignità della persona e della convivenza civile, cercando di promuovere la libertà e la dignità dell’essere umano. Il suo rapimento, la prigionia e l’assassinio spiegano il nostro presente e restano un monito costante per il futuro. Il sacrificio, la speranza, la pazienza e la mitezza di quest’uomo possono dirci tanto ancora oggi. A lui e a tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita per ideali più grandi dobbiamo la nostra libertà, le grandi conquiste della democrazia, della pace e della legalità; a Moro dobbiamo dire grazie per la testimonianza fino alla fine del servizio allo Stato come servizio all’intera comunità nazionale.

 

di Alberto Ratti - Componente del Centro studi dell’Azione cattolica italiana
dal sito 
http://azionecattolica.it