Giubileo dei carcerati
Domenica 6 novembre Papa Francesco ha celebrato nella Basilica di San Pietro in Vaticano il Giubileo dei carcerati (testo dell’omelia), che si inserisce all’interno del Giubileo straordinario della Misericordia indetto l’8 dicembre 2015. Il Papa ha riservato un’attenzione particolare a quella categoria di uomini ultimi tra gli ultimi, i carcerati, in quella tensione verso gli emarginati e gli esclusi che lo contraddistingue e che incarna e rende vivo il messaggio evangelico. Il suo intento è che la misericordia del Padre giunga realmente a tutti, anche a coloro sui quale ricade lo stigma sociale del delinquente. Nella Bolla di indizione del Giubileo si legge: “Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge. La giustizia da sola non basta, e l’esperienza insegna che appellarsi solo ad essa rischia di distruggerla. Per questo Dio va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono. Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono. Dio non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e supera in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia”.
Il perdono, dunque, come qualcosa che ingloba e al contempo supera la giustizia. Potremmo chiederci, approfittando dell’occasione, se la categoria del perdono, che è, e resta, una categoria etico – morale, possa in qualche modo orientare le regole del vivere comune. Chiedendoci altresì se, come comunità, siamo disposti a raccogliere la sfida lanciata dai nostri padri costituenti all’art. 27 della Costituzione, dove si afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La rieducazione implica la fiducia in una possibilità di cambiamento per colui che ha sbagliato. Essa comporta un reinserimento della persona nella società di cui esso faceva parte. Solo in questa direzione la pena detentiva può avere un senso. Solo nella misura in cui siamo capaci, come Stato – comunità e come Stato – istituzione, di garantire un recupero di umanità, un’adesione spontanea alle regole comuni. Dove questo fine viene a mancare, per assenza di volontà politica, per carenze strutturali, ecco che il carcere si riduce a qualcosa di disumano e alienante, incapace di operare un’effettiva rieducazione degli individui che lo abitano.
D’altra parte, un carcere che si riduce a fornire una risposta in termini meramente sanzionatori – afflittivi realizza quella che il prof. Luciano Eusebi ha definito una “duplicazione del male”, una risposta al male con altro male. Tale tipo di sanzione trova il proprio fondamento in una concezione del reato inteso esclusivamente come “violazione di regole”. Laddove invece pensassimo al reato come “rottura di una relazione” (con la vittima del reato, ma anche con la comunità intera), oltre che come violazione di norme, ecco che allora la pena dovrebbe necessariamente assumere una valenza e una finalità diverse. L’obiettivo non sarà più solo quello di “punire”, ma altresì quello di permettere un recupero della relazione spezzata, attraverso forme di risposta al reato che prevedano un maggiore coinvolgimento della vittima, laddove possibile, e della comunità nel percorso di rieducazione del condannato, che lo aiuti a maturare la consapevolezza del disvalore del fatto commesso, ma al contempo a ricucire i rapporti umani e sperimentare così un nuovo inizio nel rispetto della dignità propria e delle altre persone.
Tutto ciò non può prescindere da uno sforzo di incontro con l’altro e di riconoscimento nell’altro di una persona, operazione utile sia per il condannato nei confronti della vittima, che viceversa. In questa direzione si muovono le riforme e gli istituti orientati alla “giustizia riparativa”, una forma di risposta al reato che muove dall’obbiettivo di rimarginare le ferite creatisi all’interno della società in seguito alla commissione dei reati, garantendo da un lato un’attenzione alla vittima, e dall’altro una rieducazione del reo e un reinserimento dello stesso nella comunità. Essa rappresenta dunque quel tentativo di superare una concezione della giustizia nettamente retributiva ed esclusivamente sanzionatoria, per realizzare finalità rieducative in cui spesso l’attuale sistema sanzionatorio fallisce. In questo sistema la persona (del reo e delle vittima) occupa il centro della scena, portatrice di una dignità, lesa, violata, ignorata, ma mai persa.
Papa Francesco con questo Giubileo dei carcerati non fa che aprire i cuori, anche dei dannati (dalla giustizia umana), alla speranza, al perdono del Padre, e forse anche degli uomini. Una speranza credo, di cui non solo i carcerati hanno bisogno, ma tutti e ciascuno.
di Flavia Modica
dal sito http://azionecattolica.it