Trent'anni dalla morte di Giancarlo Siani
Se hai 17 anni, sei napoletano e da grande vuoi fare il giornalista, allora vuol dire che qualcuno a scuola, a casa o in parrocchia ti ha parlato di un certo Giancarlo Siani, ti ha fatto leggere i suoi pezzi, ti ha raccontato dei suoi sogni.
È vero, in Italia le commemorazioni valgono come il gol della bandiera in una partita dominata dall’avversario. Ma per Siani è diverso. Un giovane normale, innanzitutto. Morto ucciso da precario del mestiere. È facile identificarsi per decine di migliaia di ragazzi: Siani si trovava esattamente nelle stesse condizioni in cui si trovano loro oggi, senza grandi certezze, circondato da squali, apparentemente sconfitto e “scamazzato” da quel cancro che si chiama camorra. Verso Siani c’é un affetto che non viene calato in basso dai salotti buoni della città, ma che sale verso l’alto dalla “meglio gioventù” di questa terra. È un simbolo di cui la politica poco credibile di questa regione nemmeno può provare ad appropriarsi, perché nasce da un istintivo e semplice senso del dovere e della giustizia che va oltre stereotipi e scelte di campo.
Di diverso, questo trentesimo anniversario della morte di Siani, ha soprattutto il contesto della città di Napoli e della grande e popolosa provincia partenopea. Il ritorno oscurato dai media dei morti ammazzati in strada, alla luce del sole, il terrore creato nei quartieri da giovanissimi malavitosi, omicidi anche di minorenni, una microcriminalitá che sembra incontrastabile. E la difficoltà a capire come questa ondata di violenza si colleghi agli affari tradizionali della camorra da strada (spaccio, contrabbando, racket) e della camorra da palazzo (cemento, rifiuti, ambiente, appalti, commesse, servizi, finanza...).
In questo contesto, viene da dire: ci manca Siani. Non un semplice “bravo giornalista”, ma un giornalista che conosceva alla perfezione volti, strade e relazioni del territorio che raccontava. Non un “tecnico dell’informazione”, ma un professionista che considerava la fedeltà alla propria terra come la premessa stessa del suo lavoro. Uno che stava dentro le cose, non pontificava da fuori. Un giovane che si lasciava colpire da ciò che vedeva e scriveva, al punto che ogni suo racconto era poi benzina per il suo impegno civile e sociale.
Napoli è una città con troppi analisti disincarnati, troppi politici inconcludenti e populisti, troppi imprenditori furbetti e troppi intellettuali rassegnati. La camorra non li teme perché non muovono nulla, non muovono coscienze. Siani l’hanno ammazzato perché muoveva coscienze, perché era immerso nelle viscere della sua terra. Non era un alieno, era un napoletano giusto: guardavi a lui, guardi a lui e capisci che si può essere napoletani e giusti. Napoli non ce la farà con l’ennesimo piano pluriennale di chiacchiere istituzionali. Napoli ce la farà se la sua gente, noi, torneremo a sentirci figli della città e non temporanei ospiti infelici. Come Siani, insieme figlio e servitore della sua terra.
di Marco Iasevoli - Giornalista di Avvenire e presidente diocesano dell’Ac di Nola
dal sito http://azionecattolica.it