Il "prossimo" decreto sull'università
Si sa, la ricerca non è il punto forte nei bilanci del nostro Paese. Ci si investe poco e spesso male, la scarsità delle risorse accompagna la vetustà di un sistema di reclutamento che non riesce ancora a liberarsi da molti personalismi e meccanismi di governo troppo spesso autoreferenziali. Cionostante, quello degli studi avanzati resta un comparto di grande richiamo per tanti giovani italiani, che coltivano il sogno di potersi spendere nella società valorizzando e gratificando le proprie capacità di approfondimento e di analisi, le proprie attitudini all'applicazione del pensiero, il proprio desiderio di sapere. È questo, in genere, lo spirito alto con cui si intraprende un dottorato di ricerca – molto spesso anche senza borsa - , quello di una conquista: ci pare un lusso poter studiare per lavoro. E infatti lo è, o meglio prima o poi lo diventa. Quando il cammino di vita personale inizia ad articolarsi, quando cioè prende corpo il desiderio di mettere su famiglia o anche quello di lasciare casa per andare a vivere da soli, spesso si genera un conflitto tra ciò che vorresti e ciò che puoi: si concilia con le responsabilità familiari un lavoro in cui alla continuità operativa non corrisponde una pari continuità contrattuale e quindi retributiva? Si può, in altre parole, avere un contratto di sei mesi e lavorare tutto l'anno?
È di questi giorni la notizia dell'avvio dei lavori del governo per la predisposizione di un decreto sull'università. “Dopo la Buona Scuola, sta per arrivare la Buona Università”, titolano alcuni dei principali quotidiani nazionali. La commissione di studio si riunirà ai primi di ottobre con l'obiettivo di produrre un testo entro la fine del mese. Il punto di partenza sarà la stabilizzazione dei ricercatori precari e il caposaldo sarà l'autonomia, per consentire alle università il reclutamento con la sola diretta responsabilità del pareggio di bilancio. Questo equivale a dire che il blocco del turnover al 60% per il 2016 potrebbe cadere, o con il decreto legge stesso oppure con una norma nella legge di stabilità.
Se da qui si parte, bisognerà tracciare una linea che diriga la riforma verso mete alte, strutturali e non meramente organizzative. Vanno date risposte alle domande di cui sopra, risposte positive e convincenti, perché i giovani impegnati come precari – o, peggio, volontari - nella ricerca scientifica siano incoraggiati a credere che sì, ne vale davvero la pena, di sacrificarsi per mettere a frutto il proprio talento.
In quest'ottica, anche l'esperienza del precariato acquisisce un proprio valore: esattamente quello del sacrificio, della fatica di attendere e non disperare. È l'opportunità di tutta una generazione per testimoniare che l'amore per il proprio lavoro e la passione per i propri sogni non si fermano davanti a una salita, soprattutto se sono alimentati dal desiderio di abitare la storia con spirito di servizio.
La ricerca, in fondo, è l'anima della modernità, è il carburante che alimenta il pensiero della società, permette di vedere oltre il proprio sguardo, lancia semi in terreni apparentemente aridi, elabora soluzioni e le mette a disposizione della politica e delle comunità. Ma ha bisogno di progetti che la abbiano a cuore, di impegni, riforme eque e risorse. Ed ha anche un vitale bisogno di disponibilità ad affrontare tempi lunghi insieme alla paura di non farcela. Una vecchia canzone diceva “Io conosco poeti che spostano i fiumi col pensiero (…), non cambiare un verso della tua canzone, non lasciare un treno fermo alla stazione. Sogna, ragazzo, sogna”.
di Nadia Matarazzo - Istituto “Giuseppe Toniolo” dell’Ac
dal sito http://giovani.azionecattolica.it