Da Atene a Bruxelles. Una faccia, una storia

La crisi in Grecia e il futuro dell'Europa
 

Comunque vada, avremo tutti perso un po’. L’Europa ha già perso un po’. Quanto accade in Grecia ha posto in evidenza un’Unione fragile e inadeguata a dare risposte alle sfide che le si presentano. Quale che sia il risultato del referendum di domenica – per alcuni, l’ultima disperata mossa del governo di Atene per ammorbidire le richieste della banca europea e degli Stati suoi creditori, per altri l’eroica quanto velleitaria rivolta delle masse guidate dal masaniello Tsipras contro la tecnocrazia finanziaria – ciò che appare evidente è che a Bruxelles il re è nudo. Così com’è: totalmente paralizzato da interessi oggi evidentemente inconciliabili. E se si guarda a domani, l’orizzonte è ancora più fosco.

Il vecchio continente e la sua debole Unione sembrano un castello medioevale in declino circondato da problemi di ogni sorta e incapace di dominare o almeno indirizzare le vicende circostanti. A meridione, sull’altra sponda del Mediterraneo, dalla Tunisia alla Siria, passando per l’Egitto, il mondo islamico è preda di uno scontro fratricida, non solo tra sunniti e sciiti come tradizione, ma tra la sua ala secolare (il cosiddetto islam moderato) e la sua frangia più integralista e anti occidentale che si autodefinisce Califfato o Stato Islamico. Una guerra combattuta con ogni mezzo, compreso l’uso della disperata ricerca di futuro dei tanti migranti in cerca di un futuro migliore. L’Europa? Un possibile campo di battaglia e terra di reclutamento per i fondamentalisti, ferma a discutere di quote di disperati da spartirsi. A oriente, la Russia e la Nato, nel silenzio distratto di buona parte dell’informazione, continuano a disporre le proprie armate lungo i confini, in uno stato di tensione permanente che parte dall’Ucraina e si estende sino alla Finlandia, in un clima da guerra fredda che pensavamo superato. L’Europa? Solo uno scacchiere su cui altre potenze (Stati Uniti e Russia) giocano la partita dei loro esclusivi interessi. A occidente, oltre l’oceano, grazie ai capitali cinesi, gli americani del nord stanno spingendo una rivoluzione digitale che sta rivoluzionando ogni forma del produrre, del consumare, del vivere. L’Europa? Solo un mercato di sbocco per le manifatture del terzo millennio, l’approdo di una nuova Via della Seta, dove a guadagnarci sono altri e non i discendenti di Marco Polo.

E a settentrione? Parafrasando una nota battuta della serie Tv Game of Thrones: lì fa solo freddo. Lo stesso gelido freddo che scende lungo la schiena quando pensiamo che l’Europa è il continente con la crescita economica più lenta, il solo in cui la popolazione decresce, l’unico in cui un bambino ha meno speranza di benessere dei suoi genitori, l’unico in cui diritti e protezioni sociali sono messi in discussione anziché aumentare.

Certo, sono solo nuvole cariche di pioggia. Il temporale non è ancora arrivato. L’Europa è ancora il cuore della democrazia e la patria delle libertà, il continente con le più ampie protezioni sociali al mondo. Tutto possiamo definirci fuorché poveri: il continente ha il 7% della popolazione, il 25% del Prodotto lordo, il 50% delle spese per Welfare State. Tuttavia, non possiamo non dirci in declino. Non tanto - o non solo - come entità politica unitaria, così come dicono gli euroscettici, i nazionalisti di destra e i populisti di sinistra, bensì come somma di nazioni, di storie, di culture.

La verità cruda e dura è che se pur l’Unione non sia la causa dei mali dell’Europa di certo essa non è nemmeno la soluzione sperata. Che cosa fare allora? Certo non augurarsi come Paul Krugman o Joseph Stiglitz la vittoria dei No al referendum ellenico, pensando che possa essere la catarsi che serve all’Europa per rigenerarsi come la Fenice. Al contrario, porterebbe dapprima povertà e caos, poi rabbia e rancore, infine fascisti e colonnelli. Se non altro i nessi causali della Storia li conosciamo bene. L’augurio è trovare al più presto un’alternativa a un modello di sviluppo capitalista che oggi ci condanna inesorabilmente, come continente. Con buona pace dei tedeschi. Chiarendo che l’appello a pensare oltre il capitalismo - come quotidianamente fa Francesco con il suo magistero - non è una lotta contro l’economia di mercato o una rinuncia a qualsiasi ragione economica, ma, proprio dinanzi alla crisi reale del capitalismo, «un invito a riordinare le priorità e a vedere il mondo come impegno di costruzione, che deve essere assunto liberamente e con responsabilità. Il futuro non è il capitalismo, bensì una comunità mondiale, che lasci sempre più spazio al modello di una libertà responsabile e che non accetti che popoli, gruppi e singoli vengano esclusi ed emarginati» (Reinhard Marx, L’Osservatore Romano del 9 gennaio 2014).

 

di Antonio Martino - pubblicato su http://azionecattolica.it