Italia. Crescita demografica sotto zero

Un nuovo grido di allarme dell’Istat

È stato pubblicato venerdì 19 febbraio 2016 il Rapporto Istat con i principali indicatori demografici relativi all’anno 2015. Dati e numeri che tratteggiano i contorni di un quadro a tinte fosche per il nostro Paese. Invecchiamento della popolazione, calo delle nascite, decremento demografico non sono certo fenomeni nuovi. Tuttavia, i dati dell’ultimo Report sono allarmanti, forse più di sempre.

E la preoccupazione maggiore consiste probabilmente nel fatto che questi dati faticano a diventare il perno su cui far ruotare contenuti e priorità dell’agenda nel nostro Paese. Protagonisti, per un giorno, di alcune dense pagine nei più importanti quotidiani nazionali, i numeri del Rapporto segnalano una crisi così profonda da togliere (almeno così dovrebbe essere) il sonno a tutti.

Nel 2015 sono morte in Italia 653mila persone, 54mila in più rispetto a quanto accaduto nel 2014(+9,1%). Un incremento significativo che porta ad un tasso di mortalità nel nostro Paese pari al 10,7 per mille, in parte dovuto – spiega l’Istat – a effetti strutturali connessi all’invecchiamento e in parte al posticipo delle morti non avvenute nel biennio 2013-2014, più favorevole per la sopravvivenza (una sorta di “effetto rimbalzo”). Ma il dato su cui forse dovremmo porre maggiore attenzione è quello relativo ai nuovi nati in Italia nel 2015: le nascite sono stimate in 488mila unità, ben quindicimila in meno rispetto all’anno precedente, toccando un nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia, dopo quello del 2014 (503mila). La fecondità è scesa per il quinto anno consecutivo, arrivando al valore medio di 1,35 figli per donna, mentre l’età media delle madri è salita a 31,6 anni. Come si legge nel Rapporto, «alla bassa propensione di fecondità, largamente insufficiente a garantire il necessario ricambio generazionale, continua ad accompagnarsi la scelta di rinviare sempre più in là il momento in cui avere figli». L’andamento, uniforme su tutto il territorio nazionale (in nessuna regione si riscontrano incrementi di natalità), è riconducibile alla trasformazione strutturale della popolazione femminile in età feconda (15- 49 anni): le donne in questa fascia di età sono oggi meno numerose e mediamente più anziane dal momento che «le baby-boomers (nate a cavallo degli anni Sessanta-Settanta) si avviano a terminare l’esperienza riproduttiva e al loro posto subentrano, gradualmente, le ridotte generazioni delle baby-busters (nate negli anni Ottanta-Novanta)». La composizione delle nascite per cittadinanza della madre (italiana/straniera) dimostra inoltre che si va riducendo anche il contributo delle cittadine straniere alla natalità: i nati da madre non italiana nel 2015 scendono a 93mila ossia oltre 5mila in meno rispetto al 2014 (-5,4%). Di contro, secondo gli indici demografici dell’Istat, non arretra il processo di invecchiamento, assoluto e relativo. Gli ultrasessantacinquenni sono 13,4 milioni, il 22% del totale. In diminuzione risultano sia la popolazione in età attiva (15-64 anni) che quella fino a 14 anni di età. La prima scende a 39 milioni, il 64,3% del totale, la seconda comprende 8,3 milioni di ragazzi e rappresenta il 13,7%. L’età media della popolazione si attesta oggi a 44,6 anni.

Nel complesso, ne esce l’immagine di un Paese in cui l’aumento della mortalità mostra un livello mai raggiunto nel secondo dopoguerra e va di pari passo con il più basso numero di nascite in oltre 150 anni di unità nazionale. Con il conseguente ulteriore record di un saldo naturale negativo – 165mila morti in più rispetto ai nati – che determina il calo numerico della stessa popolazione, condizionato anche dalla diminuzione della capacità attrattiva nei riguardi delle migrazioni dall’estero ed insieme da una crescente tendenza all’emigrazione da parte degli italiani. Al 1° gennaio 2016 la popolazione in Italia è di 60 milioni 656mila residenti con un bilancio di 139mila abitanti in meno rispetto alla precedente rilevazione: una variazione negativa che non si registrava in Italia dal lontano 1918.

Questi dati statistici, insieme a molti altri raccolti nel recente Rapporto, evidenziano dinamiche e processi in atto da tempo. Non semplici “numeri” ma piuttosto segnali che interpellano. Cifre, percentuali, fenomeni dietro i quali si celano temi complessi e scelte annose, con proiezioni per nulla difficili da immaginare. La mancanza di lavoro, la difficoltà (soprattutto per le donne) di conciliare vita familiare e lavorativa, la “sconvenienza” dei figli non aiutano certo a guardare con fiducia al futuro. Inedite sono le istanze nell’ambito dell’assistenza agli anziani e alla non autosufficienza di fronte all’inesorabile processo d’invecchiamento della popolazione e alle sempre più fragili condizioni delle famiglie. Non ancora indagati a sufficienza sono poi i temi cruciali del rapporto tra generazioni e dell’equità intergenerazionale, delle ricadute sul sistema di welfare e sulla coesione sociale del Paese. Senza dimenticare che unPaese che perde in natalità perde anche in produttività e sviluppo. Non ci sono soluzioni pronte e rimedi dall’esito immediato ma è evidente l’urgenza di un cambio di rotta: i cambiamenti in atto non possono lasciarci indifferenti e richiedono tutta la cura di cui siamo ancora capaci.

 

di Sara Martini - Componente del Comitato esecutivo dell’Istituto Giuseppe Toniolo e del Centro Studi ACI
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