L’America (divisa) che ha votato per Trump

Le ragioni della vittoria e le preoccupazioni per il futuro

Come da pochi previsto, Donald Trump ha sedotto gli elettori di quell’America viscerale ma reale che fa i conti con le paure “derivate” dall’attuale modello di globalizzazione. Sono quegli stessi individui che mettono sul medesimo piatto della bilancia le ondate migratorie, il multiculturalismo, il terrorismo internazionale, la crisi dell’industria siderurgica americana, il divario crescente tra ricchi e poveri e la mai superata questione razziale. Sono per lo più i rappresentanti di un mondo profondo, rurale, molto conservatore che non vuole rinunciare al modello “conquista del west” su cui si fonda buona parte della nazione a stelle e strisce.
Trump ha però raccolto anche il voto urbano di masse di persone disilluse dall’attuale establishment di matrice democratica, che si sentono escluse dall’ascensore sociale, per lo più anche fisicamente poste ai margini delle città. Per non parlare del successo negli Stati tradizionalmente democratici, con un ricco passato industriale ma con un presente fatto di ristrutturazioni e tagli dei posti di lavoro.
Di fronte a una Hillary Clinton fortemente identificata con il volto peggiore del potere politico, che non è riuscita a liberarsi della sua immagine fredda e dal sospetto della malafede, l’imprenditore Trump ha avuto gioco facile nel capitalizzare tutto il malcontento. Anche se la presidenza Obama può vantare un tasso di disoccupazione negli Stati Uniti sceso al 4,9%, negli ultimi anni non ha smesso di crescere la disuguaglianza; la mobilità sociale sta diventando un’utopia più che una realtà nel paese del sogno americano; il potere d’acquisto delle classi medie è notevolmente diminuito e quello che guadagnano milioni di cittadini americani non è più sufficiente a garantire gli standard di benessere di un tempo. Tutto questo non poteva non essere il terreno di coltura ideale per l’indignazione popolare che ha acceso gli appelli emotivi di Trump al protezionismo e a “una nuova grande America”, garantendogli la vittoria.
L’insoddisfazione per la politica tradizionale e i partiti che stiamo misurando in gran parte del mondo hanno pesato molto di più che la campagna sessista o i commenti razzisti che caratterizzano il vocabolario del tycoon. Di fatto, abbiamo assistito ad un altro capitolo di una crisi di sistema che lega il voto delle presidenziali Usa al trionfo della Brexit britannica, l’aumento globale del populismo al fallimento del governo della Colombia nel referendum sull’accordo di pace con le Farc. Nessuno credo pensi che Trump voglia realmente espellere gli 11 milioni di immigrati senza documenti che vivono e lavorano negli Stati Uniti. Né è credibile la sua idea di costruire un muro sul confine con il Messico, già di per sé molto sigillato. Quello che Trump ha però già fatto è l’aver portato nel dibattito politico l’odio, così favorendo e alimentando in prospettiva l’azione di tanti movimenti di estrema destra che vanno crescendo in ogni angolo di mondo e soprattutto nella vecchia Europa.
Preoccupante è anche ciò che potrà determinare l’amministrazione Trump nel commercio mondiale e in politica estera. Ha già promesso la revisione di alcuni trattati economici, come quello del Pacifico con la Cina, che - non va dimenticato - possiede dei titoli del debito americano. Una politica neo-protezionista avrebbe effetti molto dannosi per l’economia globale che ancora risente gli effetti dell’ultima recessione. Preoccupante è altresì l’annunciato disimpegno in politica estera: Trump sostiene che gli Usa hanno bisogno di ritrovare un po' di isolazionismo, lontani dal ruolo di gendarme globale che hanno ricoperto dalla Seconda guerra mondiale ad oggi. Questo potrebbe tradursi in ulteriori tensioni geo-strategiche, in particolare nelle regioni con equilibrio debole come il Medioriente. Fa pensare all’entusiasmo con cui Putin ha accolto l'elezione dell’“amico Donald”.
Va ricordato che il sistema politico americano si basa su una serie sintonizzata di pesi e contrappesi. E anche se i repubblicani controlleranno la Presidenza, la Camera dei Rappresentanti e il Senato, come non accadeva dal 1928, non va dimenticato che Trump dovrà comunque misurarsi con le diverse anime del Partito Repubblicano che non lo amano. La lotta interna richiederà di riequilibrare le cose e la demagogia populista dovrà – speriamo - cedere alla realpolitik. Nel frattempo, il mondo può solo aspettare stupito della più grande incertezza che ha mai seguito l’elezione di un presidente americano.

 

di Antonio Martino
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