Questione demografica e cultura sociale
Fare figli è un lusso. Ma la fertilità è un bene comune. E il meccanismo s’inceppa subito. Chissà perché, però, il dibattito pubblico e privato risulta sempre polarizzato tra chi incoraggia i potenziali genitori ad affrontare tempestivamente la sfida di crescere un figlio e chi invece difende il diritto a mantenere giocoforza un ordine di priorità 2.0: un lavoro più stabile possibile (leggasi contratto di almeno 3 anni), uno stipendio che consenta il mantenimento del figlio ma anche dei genitori, qualche anno per la ricognizione della propria identità sociale ai fini di una buona sintesi studente-precario-genitore, e finalmente (forse) un figlio. “Con chi” sarebbe un tema nel tema.
Nel mezzo c’è la vita. La vita dei giovani, meno giovani e – nessuno li nomina mai – anche dei giovanissimi. Sì, perché guardarsi avanti è la linfa dei sogni, preparare la strada è il miglior modo per godere l’attesa di ciò che sarà, impegnarsi in un progetto significa dare corpo al desiderio di felicità che sta dentro ogni esistenza, soprattutto in quella di chi, come i giovani e i giovanissimi, appunto, sul futuro ci scommette affrontandone i costi e i rischi. Senza paura? No. Con mille paure. E pensarsi genitori in un tempo in cui siamo ridotti ad essere solo un passaggio tra la condizione di studente e/o precario e quella di mamma o papà ci spaventa non poco. Il bene comune vero è tutto quello che sta nel mezzo: speranze, attese, frustrazioni, slanci, frenate brusche, illusioni, batoste, salite, discese, stage, tirocini a titolo gratuito, lauree che il mercato del lavoro non vuole ma che restano attive nelle università per mantenere in vita un qualche sistema di approvvigionamento di risorse. Infruttuoso, costoso, stantio.
L’ultimo rapporto Istat sugli indicatori demografici, pubblicato qualche mese fa, ha divulgato con clamore il dato secondo il quale la natalità degli italiani nel 2015 è stata la più bassa dall’Unità d’Italia: solo 488.000 nuovi nati (l’anno precedente – già da minimo storico – erano stati 503.000), dato che ha significato un calo demografico ulteriore perché il saldo naturale (la differenza tra nascite e decessi) ha continuato ad essere negativo.
L’effetto immediato è stato il rilancio allarmistico del solito slogan “gli italiani non fanno più figli”, mentre nel medio termine la nota campagna del Ministero della Salute in favore della natalità rappresenta il genere di “prodotto istituzionale” efficace solo nel dare (discutibile) risonanza mediatica a un tema che riguarda le coscienze e che interpella la società, le coppie, i single, le istituzioni, la Chiesa, la storia. Un tema che merita profili alti e che scatena interrogativi di senso su questa particolare congiuntura e sulle responsabilità dei suoi tratti più asfittici. Quelli della natalità, della genitorialità e dei figli sono i grossi assi per il riprodursi della comunità e sempre più spesso sono vittime del paradosso che li vede sottratti alla dimensione educativa – di cui avrebbero un gran bisogno – per essere dati, invece, in pasto a quella mediatica, che – si sa – senza un profilo culturale solido – rischia di assottigliare la portata degli argomenti e realizzare un enorme e generalizzato ribasso qualitativo della cultura sociale.
Il trend negativo dei tassi di natalità nel nostro Paese ha, però, bisogno anche di una lettura comparativa, dalla quale ricavare le opportune aperture di visuale e comprendere, così, se davvero il calo demografico è figlio dei progressi sociali, dei processi di emancipazione che ne derivano e della precarietà del lavoro.
I Paesi dell’Unione Europea che registrano la natalità più bassa sono (in ordine decrescente) Polonia, Bulgaria, Germania e Italia. Quelli con la natalità più alta sono invece Francia, Regno Unito, Finlandia e Svezia. Dove sta l’inghippo? Probabilmente nel confrontare situazioni simili tra loro e, di conseguenza, fidarsi del dogma secondo il quale il calo della fertilità è dovuto al maggior coinvolgimento delle donne nel mondo del lavoro: studi di scienze sociali con lo sguardo ampio su diverse situazioni socio-istituzionali dimostrano, infatti, come non sia infrequente che le culle siano più vuote proprio nelle economie con bassi tassi di occupazione femminile. Una comparazione ad ampio spettro permette anche di rinvenire quanto possa essere determinante nel favorire una cultura della natalità (perché è di questo che parliamo) l’efficacia delle politiche a sostegno della famiglia: la certezza di poter usufruire di sussidi e servizi per i propri figli gioca un ruolo fondamentale nel tenere in armonia la condizione di lavoratore con quella di genitore. E da questa considerazione potrebbe partire una riflessione più ampia sulla famiglia, perché oggi in Italia uno dei fattori che contribuisce a dissuadere molti giovani dalla scommessa su una famiglia propria è la configurazione stessa della famiglia come uno svantaggio: legarsi in un tempo di cose effimere, assumersi la responsabilità di una nuova creatura davanti a modelli politici, istituzionali e sociali che fanno la corsa alla deresponsabilizzazione, darsi una regola di vita mentre il mondo viene deregolamentato; tutto questo appare sconveniente, anacronistico, forse addirittura inutile.
Probabilmente il problema dell’Italia non è tanto che non facciamo più figli, ma quanto che non vogliamo più fare i genitori. E prima di perseguitare e condannare chi sperimenta - molto spesso drammaticamente piuttosto che con faciloneria - questa fatica, bisognerebbe chiedersi cosa e come imparare dagli altri. Dagli stranieri, per esempio, dai migranti che vivono nel nostro Paese. Già, perché a sostenere la crescita demografica dell’Italia paradossalmente non sono più gli italiani.
di Nadia Matarazzo - Componente del Centro studi dell’Azione Cattolica Italiana