Passato e futuro dell’Onu
A settant’anni dalla sua fondazione si coglie con evidenza in quale misura l’Onu non sia riuscita in maniera soddisfacente a perseguire i suoi scopi. In uno storico momento di svolta per l’umanità, con problemi incombenti e interrelati che per essere risolti postulano un comune sforzo a livello planetario, sembra imprescindibile un ripensamento delle strutture istituzionali e delle forme d’azione delle Nazioni Unite; un ripensamento assistito, però, da un “salto di qualità” a livello etico, politico e giuridico.
«La vostra vocazione è quella di affratellare non solo alcuni, ma tutti i Popoli. Difficile impresa? Senza dubbio. Ma questa è l’impresa; questa la vostra nobilissima impresa». Così Paolo VI, nella storica visita del 4 ottobre 1965 alle Nazioni Unite, in occasione del ventesimo anniversario della loro istituzione; la prima di un Papa, che avrebbe aperto la strada a quelle dei suoi successori: Giovanni Paolo II (1979 e 1995) e Benedetto XVI (2008). Una visita, quella di papa Montini, che segnava un mutamento di attenzione della Santa Sede nei confronti dell’Organizzazione ed un discorso, il suo, di ampio orizzonte, direi fondativo, certamente il più organico fra tutte le allocuzioni pontificie all’assemblea degli Stati.
A cinquant’anni da quello storico evento, vien fatto di domandarsi se e quanto l’invito del Pontefice abbia avuto seguito nell’esperienza concreta dell’istituzione; quanto quella vocazione da lui indicata sia penetrata nella coscienza individuale e collettiva, sia divenuta consapevolezza nei vertici e negli operatori dell’istituzione.
L’appello montiniano era rivolto in un momento storico di grandi tensioni internazionali, ma anche di grandi speranze, e si univa alla esortazione per cui «l’edificio che avete costruito non deve mai più decadere, ma deve essere perfezionato e adeguato alle esigenze che la storia del mondo presenterà». Di qui l’ulteriore interrogativo: quanto l’agire e la struttura stessa delle Nazioni Unite si è trasformata, si è adeguata ai profondi mutamenti che nell’ultimo mezzo secolo la comunità internazionale ha conosciuto in una pluralità di ambiti, a cominciare da quello geo-politico.
Difficile fare un bilancio delle positività accumulatesi nei settant’anni di vita delle Nazioni Unite. Certamente, se si guarda alle salienti ragioni della loro esistenza, vale a dire il perseguimento della pace e l’affermazione e tutela dei diritti umani, si possono cogliere facilmente dei punti conquistati. Lo spettro di una terza guerra mondiale, riaffacciatosi più di una volta alla ribalta planetaria, è stato ricacciato indietro anche grazie alla azione dell’Onu, pur rimanendo impossibile sapere cosa sarebbe successo senza la sua presenza: la storia, lo sappiamo, non si può fare con i se. Per contro la guerra non è stata debellata; anzi sembra essere divenuta endemica, sparsa a macchia di leopardo nel mondo, sovente rivestita di abiti diversi dal passato e talora difficilmente riconoscibile: si pensi solo al fenomeno crescente del terrorismo, in cui i nemici non si distinguono più per bandiere e divise, non si affrontano frontalmente né dichiarano formalmente la guerra, ma sono mimetizzati nella massa, dissimulano la propria identità, operano dentro la società e le sue strutture. Non a caso papa Francesco, nell’omelia della messa celebrata nel sacrario militare di Redipuglia in occasione del centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, ha potuto fare una affermazione che ha sconvolto, aprendo gli occhi sul fenomeno: «Anche oggi – ha detto –, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni».
Quanto ai diritti umani, non si può negare il ruolo che l’Organizzazione ha avuto, specie attraverso alcune delle sue agenzie, nel far crescere una coscienza individuale e collettiva circa l’esistenza di spettanze inalienabili in ogni uomo, nel promuoverne la conoscenza e la tutela, nel reclamarne l’osservanza, non solo formale ma anche sostanziale. In questo contesto appare particolarmente apprezzabile l’affermazione e la crescita, nell’agire più recente dell’Onu, del principio della «responsabilità di proteggere», fondato appunto sulla dignità della persona umana.
È da dire però che la concreta misurazione degli effetti dell’azione animatrice è percepibile sì, ma assai difficilmente misurabile, come nella nota immagine della foresta che cresce senza che ce se ne accorga. Per rimanere nella metafora, facile avvertire invece, nella foresta, l’albero che si schianta e cade. Detto altrimenti, a settant’anni dalla sua fondazione si coglie con evidenza in quale misura l’Onu non sia riuscita in maniera soddisfacente a perseguire – per usare ancora parole di Paolo VI – «il grande principio che i rapporti fra i popoli devono essere regolati dalla ragione, dalla giustizia, dal diritto, dalla trattativa, non dalla forza, non dalla violenza, non dalla guerra, e nemmeno dalla paura, né dall’inganno».
In un mondo profondamente trasformato rispetto a quello del secondo dopoguerra, con fenomeni nuovi – dall’economia all’ecologia – che hanno assunto dimensioni planetarie, l’Onu sembra sempre più spesso uno spettatore distratto o impotente, attardato in discussioni tanto interminabili quanto non incisive, appesantito da un apparato burocratico che parrebbe pletorico, incapace di intervenire con autorevolezza, immediatezza ed efficacia nei momenti e nei luoghi di crisi.
Si avverte, nel sentire diffuso, l’affievolirsi delle speranze di un tempo; il diffondersi del disinteresse verso un’autorità mondiale non percepita – o non percepita più – come tale. In qualche modo si avverte il singolare divario tra la globalizzazione dei problemi e la mancanza – o quantomeno la debolezza – di tale autorità. Ed invece, come ha scritto Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, «per il governo dell’economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell’ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale».
Tra i fattori della crisi di un’idea forte, nata nel crogiolo delle sofferenze causate dall’immane conflitto mondiale, dalle truci dittature che avevano fatto conoscere gli abissi del male, tre mi sembrano particolarmente rilevanti: il mancato adeguamento della istituzione – auspicato da Paolo VI – alle esigenze poste dai grandi mutamenti della storia; la sua incapacità a far crescere nel proprio ambito un ethos condiviso, volto a darle un’anima; un’ambigua esperienza nell’ambito dei diritti umani.
Per quanto attiene al primo punto, basti pensare al fatto che il cuore dell’Organizzazione riflette ancora la geopolitica dell’immediato secondo dopoguerra. In effetti il Consiglio di Sicurezza dell’Onu conosce tuttora tra i suoi quindici membri cinque permanenti, rappresentanti le nazioni vincitrici della guerra: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Cina. È ragionevole pensare che ciò non rifletta più gli equilibri attuali di potenze, né costituisca una equa rappresentanza dell’odierna geopolitica: realtà statuali in ascesa come il Brasile o l’India sono fuori; l’Unione Europea non è presente, mentre vi sono annoverati due Stati europei; l’Africa è assente. È stato notato che il secondo ed il terzo paese finanziatore della istituzione, vale a dire il Giappone e la Germania, sono fuori del Consiglio di Sicurezza: e si tratta, non a caso, di due grandi potenze uscite sconfitte nel 1945.
Lo squilibrio strutturale tra membri permanenti e membri non permanenti è, già di per sé, un fatto singolare per un’istituzione che intende basarsi sul principio di eguaglianza giuridica degli Stati che ne fanno parte. Se tale diversità di status poteva giustificarsi agli albori dell’Organizzazione, quando le potenze vincitrici avevano la responsabilità di portare pace, libertà e giustizia in un mondo sconvolto, oggi pare non avere più una ragione convincente.
Del resto la contraddizione col principio di eguaglianza si manifesta anche nell’agire del Consiglio, le cui decisioni di carattere non procedurale, ma sostanziale, possono essere annullate dal cosiddetto “veto” di uno solo dei membri permanenti.
L’Organizzazione d’altra parte non sembra essere stata in grado di forgiare e far crescere, nel proprio seno e nella comunità degli Stati, un ethos capace di dare un’anima al suo agire; capace di motivare il passaggio dalla semplice coesistenza ad una vera solidarietà. Lo denunciava in qualche modo, e seppure indirettamente, Giovanni Paolo II nella sua seconda visita del 1995, quando affermava: «Occorre che l’Organizzazione delle Nazioni Unite si elevi sempre più dallo stadio freddo di istituzione di tipo amministrativo a quello di centro morale, in cui tutte le nazioni del mondo si sentano a casa loro, sviluppando la comune coscienza di essere, per così dire, una “famiglia di nazioni”»; ed aggiungeva: «Il concetto di “famiglia” evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero. In un’autentica famiglia non c’è il dominio dei forti; al contrario, i deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti».
In sostanza, nel divenire della storia, troppo fievole e timido è stato quel principio di solidarietà, che pure costituiva elemento tra i dominanti nel patrimonio genetico originario dell’istituzione.
Infine la questione dei diritti umani. Nello Statuto dell’Onu è dichiarata la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’eguaglianza tra gli uomini, e conseguentemente l’Organizzazione nel 1948 approvò e proclamò la Dichiarazione universale dei diritti umani. Le Nazioni Unite, e va dato loro atto, si sono largamente impegnate nel corso del settantennio per i diritti umani; ma non si può tacere il fatto che ormai da molto tempo il loro agire sia sempre più influenzato da correnti del pensiero relativistico contemporaneo, che stravolgono quei fondamenti giusnaturalistici senza i quali i diritti in questione non sono. Si pensi solo ad alcuni dei programmi politici scaturiti da conferenze mondiali promosse dall’Onu in materia di sessualità, uguaglianza di genere, controllo delle nascite, che hanno portato a una sorta di reinterpretazione dei diritti umani secondo una logica utilitaristica e rispondente sostanzialmente agli interessi del più forte. Non di rado una sorta di «solidarietà rovesciata» è scaturita da tale linea culturale e politica di marca neo-imperialista, ad esempio con l’assicurazione di aiuti di vario tipo ai paesi disposti ad assoggettarsi a politiche demografiche, nonostante la lontananza delle pratiche anticoncezionali dall’etica e dalle tradizioni delle proprie popolazioni. Una nuova forma di colonialismo – non politico, ma culturale (oltre che economico) – sembra essersi progressivamente affermata senza l’opposizione dell’Onu, non di rado col suo sostegno.
Per converso su di alcuni diritti fondamentali l’impegno risulta, nonostante tutto, carente: si pensi in particolare al diritto di libertà religiosa che, secondo gli analisti, continua ad essere violato per sette su dieci cittadini del mondo, senza un adeguato impegno di contrasto da parte (anche) delle Nazioni Unite.
In uno storico momento di svolta per l’umanità, con problemi incombenti e interrelati che per essere risolti postulano un comune sforzo a livello planetario (si consideri solo la questione ecologica, denunciata con tanto pathos e forza da Francesco nell’enciclica Laudato si’), sembra imprescindibile un ripensamento delle strutture istituzionali e delle forme d’azione delle Nazioni Unite; un ripensamento assistito, però, da un “salto di qualità” a livello etico, politico e giuridico.
di Giuseppe Dalla Torre - Docente di Diritto canonico e Teologia alla Lumsa, di cui è stato rettore dal 1991 al 2014. È presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano e membro del Comitato nazionale per la bioetica.
Per “Dialoghi” n.3/2015