Sinodo sulla famiglia/10
Com’è stato il Sinodo visto dalla parte delle famiglie? Come leggere le conclusioni dell’assemblea sinodale con la sensibilità di una coppia che ha seguito tutto passo dopo passo? La risposta arriva da Giuseppina De Simone e Franco Miano, sposi di lungo corso, due figli, entrambi docenti universitari di filosofia – e lui dal 2008 al 2014 presidente nazionale di Azione Cattolica – che al Sinodo erano l’unica coppia di sposi “esperti”, accanto a 17 coppie di uditrici e uditori.
Vi sembra corretto affermare che la Relazione finale assegni – o riassegni – alla famiglia una centralità che non può più essere data per scontata?
Certo, questa è la vera novità: vedere la realtà con l’ottica della famiglia. E l’ottica della famiglia è quella della vita, e della vita di relazione. Non individui isolati, ma considerati nella loro esistenza concreta, nella consapevolezza che ogni esistenza è una trama di relazioni. Muoversi in questa logica aiuta a superare gli specialismi della pastorale, a mettere da parte la “pastorale a pezzetti” per una visione di insieme. È un po’ la riscoperta di quella pastorale integrata di cui si è parlato tanto, ma spesso senza concretizzare. E poi ripartire dalla famiglia significa assumere modi e tempi della famiglia.
Siamo molto lontani da questo obiettivo?
Purtroppo sì. La famiglia rischia troppo spesso di essere un “pezzetto” tra tante altre proposte pastorali. Ma ora la sfida è stata posta in modo molto chiaro. Ci sembra di poter dire che non c’è in gioco solo il futuro della famiglia, ma della Chiesa intera.
Dopo il Motu proprio, in cui il Papa ha dato ai vescovi la possibilità di decidere come avviare e risolvere, nei casi palesi, la verifica della nullità matrimoniale, ora arriva anche la responsabilità di verificare il discernimento per l’integrazione dei divorziati risposati. Dopo il Sinodo si può dire che il Papa stia assegnando ai vescovi funzioni sempre più rilevanti?
Diremmo una responsabilità più diretta in ordine alla vita di fede per le persone che sono loro affidate. Si tratta di ritrovare autenticamente il tratto pastorale della Chiesa. Sono scelte che fanno emergere la figura di un pastore con “l’odore delle pecore”, di una guida che, in quanto pastore, deve davvero amare e conoscere la sua gente. Ecco, più che nuovi funzioni o poteri maggiori, ci pare che si voglia ricondurre la figura del vescovo all’essenza della pastoralità, che vuol dire stare vicino alla gente.
Le tre parole chiave di questo Sinodo potrebbero essere accompagnare, discernere e integrare. Siete d’accordo o ritenete che sia il caso di aggiungere altre sottolineature?
C’è un’altra parola importante, quella che forse tiene insieme tutto. È ascolto. In questo Sinodo abbiamo vissuto un’esperienza forte di ascolto: intenso, appassionato, a volte faticoso. Ma la fede stessa nasce dall’ascolto, l’annuncio nasce dall’ascolto, perché si tratta di riconoscere sempre e ovunque il primato dell’amore di Dio.
Dalla Relazione finale sembra emergere una nuova e più grande responsabilità nei confronti della famiglia anche da parte della società civile e del mondo laico. La Chiesa, con questo “doppio” Sinodo, ha fatto la sua parte. Ora la società civile raccoglierà questo appello?
Dovremmo riflettere sul fatto che la Chiesa ha avuto il coraggio di spendersi per la famiglia in un arco di tempo che supera i due anni, e di dedicare alla riflessione sulla famiglia due momenti fondamentali come appunto i due Sinodi 2014 e 2015. E il Sinodo rappresenta una delle forme più alte della vita della Chiesa. La società civile, con le sue modalità, dovrebbe raccogliere questo appello e riconoscere la famiglia come risorsa fondamentale.
Da vari punti della Relazione emerge il primato della coscienza “rettamente formata” – primato mai messo in discussione ma spesso dimenticato – che significa aver investito le persone di una dignità nuova. Come inciderà questa sottolineatura nella pastorale “con” e “per” le famiglie?
Si tratta di un riferimento molto importante. In primo luogo perché richiama tutta la Chiesa ad un impegno di formazione delle coscienze. E questo porta a valorizzare tutte quelle proposte formative che puntano proprio a questo obiettivo. Ma significa anche ribadire il valore di una formazione permanente. L’educazione delle coscienze non è data una volta per tutte, ma accompagna i diversi tempi della vita. Da qui la necessità di una formazione che vada al di là del soggettivismo e sia sempre messa in relazione con la verità della norma.
Quale ricchezza interiore vi ha regalato, come coppia, la partecipazione a questa esperienza sinodale?
L’abbiamo vissuta come aiuto fondamentale per leggere la vita della nostra famiglia con gli occhi di Dio. E, allo stesso modo, ci ha aiutato a partire dall’esperienza della nostra vita quotidiana facendoci cogliere i segni di una presenza che ci supera. In ogni caso sono tre settimane che non dimenticheremo mai.
Intervista di Luciano Moia per Avvenire