Fame e sete di giustizia

Il viaggio di Francesco in Messico

L’immagine della grande città di Ninive che si stava autodistruggendo, frutto dell’oppressione e della degradazione, della violenza e della ingiustizia, nelle parole del Papa a Ciudad Juarez, messa conclusiva del suo viaggio in Messico. Città al confine con gli Stati Uniti, gemella, in un certo senso, della texana El Paso. Una lunga rete metallica, un muro, accompagna questo confine lungo il fiume Rio Bravo.

L’immagine della biblica Ninive è quanto mai calzante e Papa Francesco, come Giona, chiede, nell’omelia, di accogliere la misericordia divina, scacciando la malvagità e prendendo sul serio l’essere umano. Con le parole che Giona ascolta dal Signore, il Papa dice: “con questo modo di comportarsi, di regolarsi, di organizzarsi stanno generando solo morte e distruzione, sofferenza e oppressione”. Le statistiche parlano di città più violenta al mondo con i suoi omicidi, due mila cinquecento solo nel 2009, con le sue 950 pandillas, bande armate legate al narcotraffico. Centinaia le bande dipandilleros che, espulse dagli Stati Uniti, fanno sentire la loro violenza in questa città di frontiera. Nel 1993 sono scomparse oltre 4 mila donne. La misericordia, dice il Papa, “invita alla conversione e al pentimento; invita a vedere il danno che a tutti i livelli si sta causando. La misericordia entra sempre nel male per trasformarlo”.

Un piccolo risultato la visita del Papa l’ha ottenuto: per quelle poche ora che Francesco ha trascorso a Ciudad Juarez è stata concordata una tregua di 12 ore. Poche ore in cui le armi hanno taciuto, e le persone hanno potuto partecipare senza timore alla celebrazione della messa che il Papa celebra a 80 metri dal confine, in modo che anche dall’altra parte, in Texsas, si potesse vedere e ascoltare le parole del vescovo di Roma.

Ciudad Juarez è un po’ la sintesi di tutto il viaggio in Messico di Francesco. Sintesi perché in questa città di frontiera si vive il dramma della povertà e della mancanza di diritti. Forte il desiderio di espatriare negli Stati Uniti. E infatti quando Francesco sale la piccola collinetta che guarda verso El Paso, c’è una grande croce, circondata da tante altre piccole, che fa memoria delle tante persone che hanno cercato di attraversare quel confine e sono morte nel tentativo di trovare un futuro migliore, il silenzio è messaggio e preghiera, e quel confine sembra solo dividere fisicamente, ma non separare uomini e donne dall’una e dall’altra parte.

Francesco incontra i giovani, a Morelia, e dice loro di non perdere la speranza. È vero non è facile in una terra dove l’unico modo di vivere sembra quello di “lasciare la vita nelle mani del narcotraffico - una “metastasi che divora” dice ai vescovi messicani - o di tutti quelli che la sola cosa che stanno facendo è seminare distruzione e morte.” Non è vero che l’unico modo di vivere è povertà ed emarginazione “dalle opportunità, emarginazione dagli spazi, emarginazione da formazione e educazione, emarginazione dalla speranza”.

Francesco sogna un Messico terra di opportunità “dove non ci sia bisogno di emigrare per sognare, dove non ci sia bisogno di essere sfruttato per lavorare, dove non ci sia bisogno di fare della disperazione e della povertà di molti l’opportunismo di pochi. Una terra che non debba piangere uomini e donne, giovani e bambini che finiscono distrutti nelle mani dei trafficanti di morte”.

Messaggio che rivolge anche alle popolazioni indigene che incontra nel Chiapas, a San Cristobal de las Casas, per chiedere perdono per le ingiustizie da loro subite, quando si è scambiata la croce con la spada. Questi popoli hanno molto da insegnare anche oggi e non solo al Messico. Francesco chiede un esame di coscienza perché troppo spesso i popoli autoctoni sono stati incompresi e esclusi dalla società, spogliati delle loro terre, costretti a fuggire perché altri, ammaliati dal potere, dal denaro e dalle leggi del mercato, hanno occupato e inquinato le loro terre. La sfida ambientale dice loro il Papa è una delle maggiori crisi della storia e ci tocca tutti e ci interpella.

Così Francesco mette in guardia da tre tentazioni che fanno naufragare la speranza: la prima tentazione è quella della ricchezza “impossessandoci di beni che sono stati dati per tutti”; è quella tentazione di “procurarsi il pane con il sudore altrui, o persino con la vita altrui. Quella ricchezza che è il pane che sa di dolore, di amarezza, di sofferenza. In una famiglia o in una società corrotta è il pane che si dà da mangiare ai propri figli”. Poi la vanità che squalifica gli altri e l’orgoglio che ci fa sentire superiori “sentendo che non si condivide la vita dei comuni mortali”.

Quella silenziosa, lunga preghiera davanti la Morenita, la Madonna di Guadalupe, patrona delle Americhe, è preghiera per far uscire la nazione messicana da queste sofferenze, per dare ai giovani la speranza di un cambiamento, perché loro solo la ricchezza della nazione. Per trovare “uomini e donne capaci di pentirsi, capaci di piangere. Piangere per l’ingiustizia, piangere per il degrado, piangere per l’oppressione”, dice il Papa a Ciudad Juarez. Sono le lacrime, aggiunge, “che possono aprire la strada alla trasformazione; sono le lacrime che possono ammorbidire il cuore, sono le lacrime che possono purificare lo sguardo e aiutare a vedere la spirale di peccato in cui molte volte si sta immersi”.

Per questo, ai vescovi messicani, dice di non rifugiarsi in “condanne generiche”, ma di essere voce profetica per “liberare totalmente dalle acque in cui purtroppo annegano tante vite, sia quelle di chi muore come vittima, sia quella di chi davanti a Dio avrà sempre le mani sporche di sangue, per quanto abbia il portafoglio pieno di denaro sporco e la coscienza anestetizzata”.

 

di Fabio Zavattaro - dal sito  http://azionecattolica.it